Il Consiglio di Stato con l’ Ordinanza n.138 del 07 gennaio 2019 ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea i seguenti quesiti interpretativi:
In merito alla prima questione il Consiglio di Stato dubita che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate rispetto alle altre modalità di affidamento, siano autenticamente compatibili con le pertinenti disposizioni e princìpi del diritto primario e derivato dell’Unione europea. In particolare, l’art. 192, comma 2, del Codice degli appalti pubblici (d. lgs. n. 50 del 2016) impone che l’affidamento in house di servizi disponibili sul mercato sia assoggettato a una duplice condizione, che non è richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi servizi (con particolare riguardo alla messa a gara con appalti pubblici e alle forme di cooperazione orizzontale fra amministrazioni): a) la prima condizione consiste nell’obbligo di motivare le condizioni che hanno comportato l’esclusione del ricorso al mercato. Tale condizione muove dal ritenuto carattere secondario e residuale dell’affidamento in house, che appare poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di, sostanzialmente, dimostrato ‘fallimento del mercato’ rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a “gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche” (risultando altrimenti tendenzialmente precluso), cui la società in house invece supplirebbe; b) la seconda condizione consiste nell’obbligo di indicare, a quegli tessi propositi, gli specifici benefìci per la collettività connessi all’opzione per l’affidamento in house (dimostrazione che non sarà invece necessario fornire in caso di altre forme di affidamento – con particolare riguardo all’affidamento tramite gare di appalto -). Anche qui la previsione dell’ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti in housemuove da un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regìme di delegazione interorganica e li relega ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra imprese.
Relativamente alla seconda questione, il Consiglio di Stato ha affermato che il particolarissimo schema della partecipazione societaria che si configura come organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni pubbliche e come organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni pubbliche non sembra in contrasto con il diritto comunitario. Tale schema, tuttavia, sembra sollevare seri dubbi di contrasto con le previsioni del diritto interno, di cui occorre quindi verificare la compatibilità con il diritto dell’UE. In particolare, l’art.4, comma 1, del Testo unico sulle società partecipate stabilisce che “le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non direttamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”.
La disposizione appare in linea l’indirizzo dell’ordinamento italiano inteso a ridurre dal punto di vista quantitativo e ad ottimizzare dal punto di vista qualitativo le partecipazioni delle amministrazioni pubbliche in società di capitali. La possibilità che un’amministrazione ‘non affidante’ decida in un secondo momento di acquisire il controllo analogo (congiunto) e di procedere all’affidamento diretto del servizio in favore della società che si configura come organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni pubbliche e come organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni pubbliche appare esclusa dal diritto nazionale in quanto – se (per un verso) la gestione dei servizi di igiene urbana rientra di certo fra le finalità istituzionali degli enti locali ‘non affidanti’ – per altro verso, la semplice possibilità che l’acquisto del controllo analogo congiunto e l’affidamento diretto possano intervenire in futuro sembra non corrispondere al criterio della “stretta necessarietà” – evidentemente da considerare come attuale e non come meramente ipotetica e futura – che appare imposto dal richiamato art. 4, comma 1.
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