Mentre continua all’8a Commissione del Senato l’indagine conoscitiva sull’applicazione del Codice dei contratti iniziata il 30 ottobre 2018 (sono tascorsi quasi 6 mesi), con oltre 50 audizioni segnaiamo che il 10 aprile scorso si è svolta l’audizione del Presidente dell’ANAC Raffaele Cantone che sul regolamento unico ha affermato “Non è assolutamente mia intenzione difendere il codice appalti, che non è il codice dell’Anac. Va benissimo il ritorno al regolamento unico se questa è la scelta del Governo e del Parlamento, ma non è possibile accettare critiche infondate all’azione dell’Autorità” mentre sulle linee guida ha aggiunto che “Non è vero che l’Autorità doveva fare 50 linee guida come qualche autorevole esponente del mondo associativo privato ha sostenuto. Questo dato è falso e denota scarsa conoscenza del codice. L’Autorità doveva fare 10 linee guida e ne ha fatte sette peraltro riviste alla luce del decreto Correttivo del 2017”.
Interessante, poi, l’audizione del 9 aprile della Corte dei conti che ha dedicato un intero paragrafo al Regolamento unico e linee guida ANAC in cui è affermato che “Nel rendere il previsto parere, il Consiglio di Stato, oltre a stigmatizzare “l’aumento della regolamentazione rispetto a quanto richiesto dalle Direttive europee, in contrasto con il divieto di c.d. gold plating”, ha ritenuto che le linee guida e gli altri decreti “ministeriali” (ad esempio, in tema di requisiti di progettisti delle amministrazioni aggiudicatrici: art. 24, comma 2; e direzione dei lavori: art. 111, commi 2 e 3) o “interministeriali” (art. 144, comma 5, relativo ai servizi di ristorazione), indipendentemente dal nomen juris fornito dalla delega e dallo stesso codice, devono essere considerati quali “regolamenti ministeriali” ai sensi dell’art. 17, comma 3, legge n. 400/1988. Diversamente ha argomentato con riguardo alle linee guida dell’ANAC. Mentre quelle a carattere “non vincolante” sono state ritenute pacificamente inquadrabili come ordinari atti amministrativi, più complessa si è rivelata la qualificazione giuridica delle linee guida a carattere “vincolante” (ad esempio: art. 83, comma 2, in materia di sistemi di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici; art. 84, comma 2, recante la disciplina degli organismi di attestazione SOA; art. 110, comma 5, lett. b, concernente i requisiti partecipativi in caso di fallimento; art. 197, comma 4, relativo ai requisiti di qualificazione del contraente generale), e degli altri atti innominati aventi il medesimo carattere (art. 31, comma 5, relativo ai requisiti e ai compiti del r.u.p. per i lavori di maggiore complessità; art. 197, comma 3, di definizione delle classifiche di qualificazione del contraente generale), comunque riconducibili all’espressione “altri atti di regolamentazione flessibile”. Il citato parere del Consiglio di Stato segue l’opzione interpretativa che combina la valenza certamente generale dei provvedimenti in questione con la natura del soggetto emanante (ANAC), il quale si configura a tutti gli effetti come un’Autorità amministrativa indipendente, con funzioni (anche) di regolazione.
Pertanto, le linee guida e gli atti ad esse assimilati dell’ANAC sono stati ricondotti alla categoria degli atti di regolazione delle Autorità indipendenti, che non sono regolamenti in senso proprio ma atti amministrativi generali con compiti, appunto, “di regolazione”. La descritta soluzione ermeneutica non appare priva di criticità. Al di là dell’apparente contraddizione di prevedere una vincolatività derivante da norme di soft regulation (che per loro natura dovrebbero essere caratterizzate dalla moral suasion piuttosto che dall’imperatività), non può non rilevarsi l’incongruenza di adottare, per il mercato dei contratti pubblici, la categoria degli atti di regolazione tecnica emanati da Autorità indipendenti”. Il Consiglio di Stato ha, poi, aggiunto che “Tralasciando altre considerazioni, non può non evidenziarsi la difficoltà per l’operatore di confrontarsi con tale inedita forma di regolamentazione, inserita all’interno di un settore affollato da norme molteplici e disomogenee, che vede coinvolte fonti di rango costituzionale, comunitario, primario e secondario. Infatti, tra le maggiori criticità – da tempo denunciate dagli addetti ai lavori e dai responsabili dei procedimenti delle diverse amministrazioni soggette al controllo della Corte dei conti – del settore dei contratti pubblici vi è la iperregolamentazione della materia. Del resto, il rischio di proliferazione delle fonti e di conseguente perdita di sistematicità ed organicità dell’ordinamento di settore era ben noto allo stesso Legislatore che, nell’indicare i principi della delega cui ha dato attuazione il d.lgs. 50 del 2016, vi includeva la “drastica riduzione” dello stock normativo (art. 1, comma 1, lett. d) della legge di delega). Infatti, la stratificazione e la frammentazione normativa, in una con il difetto di un congruo periodo di riflessione e decantazione normativa, comporta, in definitiva, il sovrapporsi di regimi transitori, il determinarsi di incertezza applicativa, l’aumento del contenzioso e dei costi amministrativi per le imprese, soprattutto piccole e medie. In tal senso, può valutarsi positivamente l’ipotesi del ritorno alla concentrazione in un unico testo regolamentare di tutte le disposizioni attuative del Codice, al fine di restituire chiarezza ed omogeneità di regole all’interprete ed all’operatore. Se, da un lato, i provvedimenti di soft law si caratterizzano per un maggior grado di flessibilità e di capacità di adattamento all’evoluzione delle fattispecie operative, dall’altro lato, rischiano di generare maggiore incertezza sia in termini di dettaglio delle regole, sia in merito alla relativa portata prescrittiva. È sempre più avvertita dalle amministrazioni controllate dalla Corte l’esigenza di certezza e stabilità delle situazioni giuridiche in tale materia”.
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