Tra le tante voci che hanno commentato il testo del nuovo Codice dei Contratti Pubblici, mancava fino a oggi quella autorevole di ANAC, che ha peraltro contribuito alla stesura della bozza elaborata dal Consiglio di Stato.
Nonostante l’Autorità abbia dato un giudizio generalmente positivo sul testo, considerato come una riforma pilastro per il futuro dell’Italia, allo stesso tempo ha riscontrato delle criticità, sottolineando che ci sono margini di miglioramento in diversi ambiti.
Con un appello da tenere in considerazione: se serve più tempo rispetto alla scadenza del 31 marzo 2023 per permettere alle stazioni appaltanti di organizzarsi meglio e di creare competenze adeguate, allora è tempo di chiedere alla Commissione Europea di fare slittare l’entrata in vigore di alcune disposizioni.
Secondo ANAC, si sono alcuni punti del testo che andrebbero rivisti prima dell’approvazione definitiva:
ANAC riconosce in astratto il valore aggiunto dell’appalto integrato, con l’affidamento di progetto e costruzione all’impresa. Ma in concreto, spiega l’autorità, succede tutt’altro, con la presentazione di progetti esecutivi che non rispondono alle aspettative delle stazioni appaltanti.
I rischi che ne derivano sono due:
L’invito è utilizzare questo strumento “quando davvero serve, per progetti molto complessi, dove l’impresa deve dare un contributo di innovazione. Altrimenti finiamo solo per penalizzare le piccole imprese e sacrificare la progettazione, cioè la fase in cui concretamente si individua cosa davvero serve all’amministrazione e ai cittadini”.
Tranchant il giudizio sulla soppressione del registro dell’in-house gestito da Anac: si tratta di una scelta sbagliata. Secondo l’Autorità, è essenziale verificare se il soggetto che acquisisce al di fuori dal mercato una commessa pubblica non faccia concorrenza sleale alle imprese. Considerato che due terzi delle domande pervenute ad ANAC sono irregolari, l’Autorità si chiede proprio cosa succederà con l’eliminazione di questo filtro. Quello che paventa è un aumento di affidamenti illegittimi e dei contenziosi.
Negativo il giudizio sull’innalzamento della soglia di qualificazione delle imprese a 500mila euro: secondo ANAC significa consentire di fare appalti fino a mezzo milione di euro anche a chi non è in grado di gestirli, perché non qualificato. Nel ballo ci sarebbe circa il 90% del totale degli affidamenti. “Rischiamo così che tali appalti, proprio per l’incapacità delle stazioni appaltanti durino molto di più e che i soldi vengano buttati”.
La proposta è di tornare alla soglia di 150mila euro e di creare una rete di centrali di committenza diffuse sul territorio, al servizio dei piccoli comuni, per diminuire il numero delle stazioni appaltanti: “Troviamo il modo di accompagnare la transizione con ragionevolezza, ma andiamo nella direzione di avere stazioni appaltanti qualificate, magari attraverso l’assunzione di giovani ingegneri bravi e motivati”.
Secondo ANAC, le disposizioni attualmente formulate sul conflitto di interessi finiscono per mettere in secondo piano un elemento essenziale dell’amministrazione: l’imparzialità. Il testo così com’è renderebbe difficile l’individuazione del conflitto di interessi, “introducendo una sorta di inversione dell’onere della prova, per dimostrare che il soggetto è in conflitto d’interessi”. L’Autorità reputa che tali disposizioni non siano conformi alle direttive europee e che si tratti di disposizioni più blande di quelle previste in generale per i procedimenti amministrativi dalla legge 241/1990. Sul punto l’auspicio è di mantenere la normativa vigente.
Infine, considerati gli obiettivi fondamentali di semplificazione e rapidità degli affidamenti, è necessario ottimizzare la digitalizzazione delle procedure per potere verificare la correttezza dell’operato delle stazioni appaltanti e delle imprese, oltre che la trasparenza del mercato: “Grazie alla digitalizzazione è possibile fare in fretta comparazioni e controlli, utilizzando meglio le risorse pubbliche”.
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